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Intervista al regista Stefano Lodovichi

stefanolodovichiiintervistaReduce dal successo ottenuto con il suo ultimo lungometraggio, La Stanza, presente sul catalogo di Amazon Prime Video, Stefano Lodovichi, al timone di serie tv come Il Cacciatore e Il Processo, rispettivamente trasmesse dalla Rai e da Mediaset, è da sempre attivo su più fronti, dal cortometraggio ai videoclip, dalla tv al cinema, dai documentari alla fiction, con prodotti notevoli e con uno stile registico supportato da un ottimo comparto tecnico, in grado di rendere le sue opere molto valide e degne di essere recuperate e riassaporate anche a distanza di tempo. Per tutti questi motivi ci fa davvero piacere aver modo di conoscerlo meglio tramite questa chiacchierata.

Hai contribuito ad arricchire con la tua impronta sia il mondo del cortometraggio, sia il mondo del lungometraggio, sia quello del piccolo schermo con serie televisive di successo. In quale di queste dimensioni senti di esserti espresso in piena libertà e con quale di questi mezzi comunicativi sei riuscito a trasmettere maggiormente la tua poetica?

Ho iniziato con i cortometraggi, i video e le pubblicità, un mondo diverso dal racconto diluito della serialità e dei lungometraggi. Fare un bel cortometraggio è una cosa complicata, serve capacità di sintesi, trovare la giusta poetica, la giusta attenzione, l’essere bravi a riassumere in pochi minuti tutto quello che è il racconto audiovisivo. Infatti, spesso i cortometraggi vanno a dilungarsi fino a 20-25 minuti, ma per me il corto dovrebbe essere tale per definizione. Quello dei video e delle pubblicità è un mondo in cui si poteva sperimentare tanto, quando i budget erano grandi. Ora che si sono ridotti drasticamente, credo che ci sarà e ci sia la possibilità di sperimentare comunque, ma sempre reinventando un certo tipo di sguardo. Sono campi, in particolare i video musicali, più adatti ai più giovani, a chi arriva con una forma mentis fresca, legata ai nuovi media, che ha la possibilità di sfruttare al meglio le minime risorse che ci sono da dedicare a questi progetti. Detto questo, tra la serialità e il cinema non ho una predilezione. Fare un film ti permette di poter essere concentrato in poco tempo su un progetto unico che ti porta via un anno, forse anche meno. Lavorare su una serie tv significa lavorare per un tempo molto più lungo. Io amo i racconti lunghi, amo entrare in empatia con le storie di personaggi che si possono seguire il più a lungo possibile. Rimanere legato alle avventure del personaggio, in un meccanismo di personificazione nei panni di un “eroe”, è quello che io cerco sempre, anche come spettatore. Le serie, soprattutto quelle a sviluppo orizzontale, servono ad entrare proprio in questo meccanismo. È proprio questo il caso di Christian, serie tv che sto girando per Sky Original e Lucky Red, e di cui sono anche showrunner.

Hai lavorato con grandi produzioni, dalla Rai a Mediaset, da Sky a Lucky Red. Com’è stato approcciarsi alla direzione di queste opere? Sei riuscito a mantenere una tua indipendenza in termini di espressione, direzione degli attori e metodologie narrative?

Penso di essere stato sempre molto svincolato dal punto di vista della libertà di espressione. Il lavoro di regista è un lavoro di confronto con altri professionisti che collaborano nel modificare, aggiustare eventuali script e storie, per renderle più giuste per il pubblico di riferimento. È ovvio che più i collaboratori sono competenti, più il legame che si crea con loro è un legame profondo che funziona, più i risultati saranno migliori e anche le eventuali modifiche richieste non saranno invadenti. Non mi sono mai trovato male con nessuno né in Rai, né in Mediaset, Amazon e nelle altre produzioni con cui ho lavorato. Forse sono fortunato, ma devo dire che la mia poetica non è mai stata tarpata, castrata. Credo che il lavoro di regista sia un lavoro di supervisione, devi coordinare al meglio tutti i vari reparti che ti fanno varie domande e per questo la collaborazione con le produzioni è una questione di dialogo. Se hai voglia di dialogare e trovi chi ha voglia di dialogare, non si creeranno problemi. Poi è una questione anche di esperienza: più esperienza hai, più ti rendi conto che non ha senso andare a scontrarsi, ma cercare di ottenere il meglio per la tua storia.

stefanolodovichilastanzaSi scorge, all’interno dei tuoi prodotti, un desiderio di raccontare, anche tramite l’arma del genere, delle realtà con un significato sociale molto forte e interessante, dal mondo del web con l’impatto che può avere soprattutto sui più giovani, alla ristrettezza mentale e culturale che in determinate realtà provinciali può portare a conseguenze inimmaginabili, a racconti ancora più universali, come la storia del giudice Alfonso Sabella nella serie Il Cacciatore o quella del pubblico ministero Elena Guerra nella serie Il Processo. Credi che il cinema o la tv, siano ancora dei mezzi utili per esprimere concetti di così ampio respiro e di così grande portata? Hanno ancora una funzione sociale, appunto, oltre che di intrattenimento?

Io credo che ogni tipo di film o di serie, o di prodotto letterario, tutto quello ciò di cui fruiamo in tal senso, sia effettivamente un’occasione per poter riflettere sulla realtà. Si può riflettere su macro sistemi o su micro argomenti, ma nessuno di essi è piccolo o grande, come nell’ultimo film che ho fatto, La Stanza, in cui si parla di famiglia, di rapporto tra genitori e figli, di come si dovrebbe cercare di andare più incontro al figlio, fare il più possibile per ascoltarlo, per il suo bene e per il bene di tutta la famiglia. Questo in realtà non è un micro argomento, certo è micro perché si svolge in una stanza, è la fotografia di una famiglia, un racconto a tre, ma come se fossimo in una rete, si vanno a toccare altri nodi, cosa che potrebbe contribuire a migliorare eventualmente la società. Quello che dobbiamo fare noi divulgatori, noi comunicatori dell’audiovisivo, è proprio il tentativo di entrare in comunicazione con gli altri. E entrare in comunicazione significa dialogare, costruire un ponte con qualcuno, significa creare vita. È come nella vita umana: i figli nascono dal rapporto a due e questo significa che dal dialogo nasce la vita e la vita è una cosa bella. La morte è una cosa brutta e la morte non è portata dal dialogo, ma dall’ascoltare solo se stessi, dall’andare dritti verso un muro. Questo è quello in cui credo. Il mio lavoro per me consiste sempre nel confrontarsi con argomenti profondi, tanto intimi quanto universali. Si parla di esempi e di tematiche, e le tematiche sono le stesse che ci troviamo ad affrontare tutti i giorni nella vita, quindi penso che noi abbiamo il dovere di intrattenere in primis ovviamente, ma intrattenere senza affrontare alcuni temi o raccontarli in modo superficiale, è qualcosa che non mi interessa neanche da spettatore. Dunque, sì, il cinema ha una funzione sociale, ma perché è nella sua stessa natura cercare di contribuire al miglioramento della società, attraverso un’analisi, una critica. I grandi rumors che ci sono stati negli ultimi mesi sulla serie La Regina Di Scacchi, hanno contribuito a diffondere una riflessione anche sul mondo delle dipendenze. Si parla di scacchi, sì, ma la protagonista è un “genio” in materia che ha bisogno di determinati medicinali per poter sfruttare al meglio il talento incredibile che ha, per poi rendersi conto alla fine che anche senza quel tipo di “aiuto”, è comunque la più forte di tutte. È un messaggio semplice e apparentemente banale, ma è un messaggio che ti dice qualche cosa e contribuisce a portare avanti un ragionamento che poi può portare a riflettere sotto vari punti di vista. Io, quindi, scelgo di intrattenere provando a costruire un dialogo con chi guarda ciò che faccio.

stefanolodovichilastanza1Tra tutte le tue opere ce n’è una che ritieni la più emblematica del tuo modo di vedere il cinema e il racconto per immagini in generale?

La Stanza, indubbiamente, è il film che mi rappresenta di più dal punto di vista intimo, dal punto di vista di una tematica, come la famiglia, che mi piace esplorare dalla prospettiva sia estetica che del linguaggio. Ho cercato di costruire una storia con un linguaggio che parla di tempo, attraverso la mescolanza di segmenti temporali incastrati in modo non lineare, andando poi a convergere e a trovare un significato. Amo i rompicapi, amo le storie di questo tipo, le storie un po’ alla Christopher Nolan, le storie alla Alfred Hitchcock, i film di genere, l’horror, la fantascienza, l’avventura, tutto ciò che ti porta a immedesimarti con un personaggio che deve riuscire a risolvere qualche arcano, a trovare una soluzione. E poi anche esteticamente La Stanza mi rappresenta molto, la casa costruita in un teatro di posa è stata pensata e scritta nel copione in ogni sfumatura, dalle crepe, alla carta da parati, al legno che scricchiola, alle vetrate liberty, ecc..

Stesso discorso per i personaggi: tra tutti quelli da te raccontati qual è quello a cui sei più legato o affezionato?

Questa è una domanda difficile, perché ne ho tanti a cui sono affezionato. Amo Saverio Barone de Il Cacciatore, interpretato da Francesco Montanari; amo Stella de La Stanza, interpretata da Camilla Filippi; amo Ruggero Barone de Il Processo, interpretato da Francesco Scianna. C’è sempre qualcosa di me che lascio in loro, piccoli elementi, piccoli semi che trasmetto di mio, di intimo, di personale. Un modo di dire o un modo di sorridere, che sento particolarmente miei. Ci sono, inoltre, quegli interpreti che anche se hanno avuto ruoli minori, hanno comunque creato un ponte con me. Un ponte fatto di fiducia, stima umana e professionale. Uno di questi è Giulio Beranek che interpreta Farinella ne Il Cacciatore, o Giordano De Plano che ne Il Processo interpreta Vittorio De Grandis, l’assistente di Ruggero Barone, un personaggio assurdo, strano.

Hai dei modelli a cui ti ispiri nel tuo approccio alla regia? Ci sono dei registi ai quali ti rifai nell’espressione artistica delle tue idee e dei tuoi progetti?

Ce ne sono tanti. Il primo è Steven Spielberg, uno dei più grandi per la voglia che ha di condividere in modo caldo ed emotivo avventure e storie di amicizia. Mi diverte tantissimo anche Luc Besson, in particolare quello di Nikita e di Leon, un tipo di regista e autore che mi ha ispirato tanto nel suo avere particolare attenzione alla delicatezza nei rapporti tra i personaggi, ma allo stesso tempo agli slanci action in stile americano. Stessa cosa vale per Guy Ritchie, più divertente e “cazzone”, ma altro grande regista che mi piace tantissimo.

stefanolodovichi1intervistaDovessi indicare nel panorama cinematografico italiano odierno qualche tuo collega degno di nota, quale nome consiglieresti e perché?

Sono tanti anche in questo caso. La mia generazione è meravigliosa. Il cinema italiano è rinato negli ultimi vent’anni grazie a grandi autori come Paolo Sorrentino, Matteo Garrone e Stefano Sollima, fino ad arrivare ai registi classici che amo alla follia come Nanni Moretti che è il più grande autore italiano. Della nuova generazione penso a Fabio e Damiano, i fratelli D’Innocenzo, a Gabriele Mainetti, Matteo Rovere, Piero Messina, Enrico Artale. Ne stimo veramente tanti, ma senza dubbio amo quei colleghi coetanei che come me propongono un cinema personale, ma che ha la voglia di andare incontro al genere. Questa generazione è la generazione figlia del cinema d’azione degli anni ‘70 e ’80, cinema di intrattenimento e di grande spettacolo. Così come ci sono entrati dentro la commedia all’italiana, l’espressionismo tedesco (che mi ha influenzato tantissimo), la nouvelle-vague francese. Credo, però, che il grande cinema americano sia quello che ci ha toccato tutti quanti in misura maggiore.

Tratto distintivo dei tuoi prodotti è un comparto tecnico sempre molto curato, con delle bellissime colonne sonore, dei cast sempre all’altezza e non solo. Come avviene la scelta dei tuoi collaboratori?

Alcuni collaboratori li porto avanti sin dall’inizio, sono grossetani come me. Da Benjamin Maier, direttore della fotografia, a Iacopo Pinesch, fonico, siamo tutti arrivati dalla provincia, viviamo di questo lavoro e siamo entrati in una rete professionale che ci ha permesso di entrare in contatto con altri produttori e altri registi. Ognuno di noi non è sempre disponibile, quindi è anche bello cambiare collaboratori per provare a confrontarsi con nuove persone. Per La Stanza, ad esempio, ho collaborato con Massimo Cantini Parrini per i costumi, un amico col quale da tempo cercavo di collaborare. Ce l’ho fatta e sono molto felice, perché lui è un genio, una persona sempre in ascolto, che non ha paura di rischiare e proporre sempre idee nuove. E ho imparato tanto da lui. Altri collaboratori sono Massimiliano Sturiale, lo scenografo che ha costruito e pensato la casa de La Stanza; Adriano Cattaneo, l’art director di questa scenografia; Roberto di Tanna, il montatore con cui lavoro da tantissimo tempo; Giorgio Giampà, musicista e compositore che da sempre dà quello sprint in più alle mie storie, riuscendo a farle volare. Ultimamente, per la serie Christian a cui sto lavorando, ho collaborato con Veronica Fragola, costumista che ha lavorato principalmente con Stefano Sollima, ed è una grandissima artista anche lei. La scelta dei collaboratori, in pratica, segue la voglia di trovare le persone più adatte per fare un certo tipo di lavoro, proprio perché io cambio molto spesso genere di riferimento: dal teen movie, al thriller horror, al crime procedural, al legal thriller, arrivando con La Stanza in un contesto assurdo (una bolla sospesa nel tempo e nello spazio), e con Christian in una periferia romana un po’ reinventata. Cerco sempre di trovare i migliori collaboratori per il tipo di progetto a cui sto lavorando, provando a trovare le persone per le quali ho fiducia, vuoi per esperienza, vuoi per stima, vuoi per conoscenza.

Ci sono in progetto altre serie tv nel tuo futuro? Che siano destinate al piccolo schermo o a piattaforme streaming ormai sempre più in alto come metodo di fruizione di telefilm o lungometraggi? Pensi che il futuro del grande schermo convergerà irrimediabilmente su queste piattaforme? Qual è la tua posizione in merito alle ultime disposizioni relative alle sale cinematografiche e ai teatri?

Sto pensando e lavorando ad altre cose, però preferisco fare una cosa alla volta. Fino all’estate dovrò seguire il montaggio e la post-produzione di Christian, quella è la cosa principale. Non penso ci sia differenza nello scrivere e nel produrre un film per il cinema o per le piattaforme, onestamente. Penso che siamo allo stesso livello, ci sono grandissimi film su Netflix, Prime Video, Apple Tv, Disney Channel. Sono così tante le piattaforme, e di così alta qualità, con la presenza di grandi artisti al loro interno, che sinceramente sarebbe stupido pensare che ci sia ancora una differenza. Credo che il futuro sarà irrimediabilmente su queste piattaforme, anzi non si tratta del futuro, è il presente. Ovviamente, però, spero che i cinema e i teatri rimarranno sempre vivi, perché amo la condivisione, è una delle esperienze più belle: l’esperienza dell’uscire, andare, vedere, è una cosa irrinunciabile. Mi auguro che dopo questa pandemia si trovi qualche soluzione per il settore.

stefanolodovichilastanza2Nel tuo film In Fondo Al Bosco, dopo l’esordio vero e proprio con Aquadro, pensato per il web, ma dal respiro altamente cinematografico, si nota un certo desiderio di virare nel cinema di genere, con tinte thriller che ammantano in maniera suggestiva il racconto. Il tuo ultimo film, La Stanza, invece, si potrebbe definire un vero e proprio horror psicologico, con venature quasi slasher. Pensi che questa sia la tua dimensione ideale? Che tipo di difficoltà hai incontrato nella realizzazione di quest’opera nell’anno appena trascorso, contrassegnato da fortissime limitazioni?

È vero, ho preso una deriva su questo genere, ma non so se sia la mia direzione definitiva. Però il genere lo amo, ma non solo uno, amo i generi ibridati. La Stanza non è solo un horror, ma un thriller a tratti slaher e anche sci-fi. Le grandi storie non sono strette su un unico genere. Lo trovo un limite di marketing, mentre se penso ai grandissimi film, tipo appunto quelli di Spielberg, mi viene in mente che ha iniziato con l’horror (che comunque non è mai stato solo horror). Se prendiamo grandi pietre miliari come Lo Squalo, Duel o Alien di Ridley Scott, notiamo che c’è anche un contesto fantascientifico. La Stanza è un’opera che parla di famiglia, cerca di commuovere, perché parla di legami, di difficoltà, di genitori e figli che non si ascoltano, dell’ultimo urlo disperato che un figlio può fare a un genitore, per chiedere aiuto. Poi, certo, è calato in una cornice horror, è un thriller psicologico, però non mi piace essere categorizzato in una cosa sola. Le limitazioni che ho incontrato per la sua realizzazione sono state tante, ma l’industria cinematografica sta tenendo botta e per esempio Lucky Red, con cui ho lavorato per La Stanza e per Christian, sta portando avanti il nostro lavoro in maniera encomiabile con controlli costanti, tamponi, distanze, divieti di assembramenti. Abbiamo pensato anche ad alcuni ambienti in cui poter girare nell’ottica di lavorare all’esterno piuttosto che all’interno. Ci sono ovviamente tante spese e rallentamenti in più, ma devo dire che almeno Lucky Red e Sky sono state fenomenali per ora. Le limitazioni possono portare a un maggiore controllo e ad avere una maggiore attenzione, permettendoci anche di andare a lavorare con più precisione. Chiaramente ci auguriamo che presto tutto questo finisca, per tornare a lavorare con meno limitazioni, ma con una sempre più intensa profondità di sguardo.

ALESSANDRA CAVISI

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