The Americans: lo spy-thriller, il dramma umano, l’identità universale e personale in una delle serie tv più belle di sempre
Siamo nell’America degli anni ’80 e di Reagan. I coniugi Jennings, Elizabeth e Philip, vivono il fantastico sogno americano: gestiscono un’agenzia viaggi di successo, hanno due figli adolescenti e sono una coppia perfetta. In realtà, però, non sono americani, non si chiamano Elizabeth e Philip e non sono affatto una coppia perfetta. Sono due agenti del KGB in missione segreta, di stanza a Washington da quasi vent’anni per combattere la Guerra Fredda al soldo della Russia.
Conclusosi lo scorso anno, dopo sei straordinarie stagioni, lo show ideato e creato da Joe Wiseberg, contiene in sé molte anime, tutte densissime, intense e straordinariamente coinvolgenti, partendo dal “superficiale” racconto spy-thriller, passando per il racconto di un pezzo di storia americana e non solo, arrivando al dramma personale di una famiglia apparentemente felice, ma realmente dilaniata dal sacrificio, dalla sofferenza, dal senso di dovere e, soprattutto, dalla mancanza di una reale identità.
The Americans, infatti, è su un doppio concetto di identità che fa perno, quella personale e quella comunitaria, trasmettendo magistralmente lo struggimento e gli enormi dilemmi dei due mastodontici protagonisti, in lotta con se stessi, con la loro patria, con quella che li “ospita” da anni e con i loro reali sentimenti.
E gli stessi dilemmi li vive lo spettatore che patisce e si interroga con loro sulla loro reale natura: sono ancora russi al 100%, nonostante la totale immersione nella realtà americana? Sono, in realtà, diventati americani, respingendo quella che è diventata la loro nuova natura, continuando a combattere una guerra non loro, solo per senso del dovere, per imposizione o per semplice abitudine? Sono diventati una vera coppia o continuano magistralmente a recitare una parte imparata duramente in anni di crudele e impressionante addestramento? Va da sé che, non trattandosi di un prodotto banale e manicheo, a nessuna di queste domande è possibile dare una risposta netta, perché ognuno dei due si troverà a lottare duramente con se stesso e con il proprio partner, per riuscire a trovare un punto fermo.
Episodio dopo episodio, missione dopo missione (inutile dire che scorrerà del sangue e che, entrambi, nonostante la loro profonda umanità e i dubbi morali che sempre più spesso li attanaglieranno, non si risparmieranno in quanto a crudeltà), ostacolo dopo ostacolo, i Jennings dovranno combattere per trovare questa identità e per difendere la sicurezza dei propri figli, messi al mondo per rendere ancora più perfetta la loro messa in scena, ma ovviamente unico riferimento sicuro della loro esistenza.
Il tutto è trasmesso facendo ricorso ad una sceneggiatura impeccabile (sia la parte spy che quella personale sono raccontate molto realisticamente), ad una colonna sonora perfettamente inserita nel quadro generale e, in primis, alla recitazione impressionante dei due attori protagonisti (Keri Russel e Matthew Rhys), in grado di raccontare tutto questo mondo tramite l’intensità e la profondità dei loro sguardi che più di una volta sembrano attraversare lo schermo e penetrare direttamente nello spettatore.
Succedono molte cose in The Americans, ci si fomenta per il racconto spionistico, ci si commuove per la struggente, difficilissima e indecifrabile storia d’amore tra i Jennings, si riflette su quanto spersonalizzante e disindividuante possa essere l’estrema ed esagerata aderenza ad un tessuto sociale (che sia quello russo o quello americano non fa differenza ovviamente), ma di quanto, al contempo, possa essere aggregante e stimolante combattere per un ideale.
È difficile, insomma, stabilire una linea di confine o capire fino in fondo le motivazioni che spingono Elizabeth e Philip ad allontanarsi l’uno dall’altra per la visione sempre più differente del loro ruolo nel KGB. L’umanità di Philip e anche la sua “americanità”, infatti, sembrano discostarsi notevolmente dall’eccesso di zelo e dalla precisione quasi robotica di Elizabeth nel portare a termine le missioni più spietate, “meccanicità” che però, nasconde, sotterra, delimita un’interiorità struggente e sofferente, in nome di una madre patria che l’ha creata e fagocitata.
Concludiamo citando la perfezione stilistica (costumi, atmosfere, scenografie) di un’opera fotografata magistralmente che ci regala anche dei personaggi “secondari” e dei rapporti interpersonali che rimangono impressi per la loro struggente poesia. Dalla spia-controspia russa Nina (bella e dannata); al vicino migliore amico Stan (agente dell’FBI a capo proprio del controspionaggio americano); alla seconda finta moglie di Philip, Martha (segretaria nell’ufficio dell’FBI dedicato appunto al controspionaggio); ai figli Paige e Henry, ignari della reale natura dei genitori e della loro famiglia; a Claudia, superiore che impartisce ordini e ambiguamente li segue nelle loro missioni (splendida in questa parte Margo Martindale); a Gabriel, padre putativo, spesso in conflitto tra i suoi sentimenti nei confronti di Philip e Elizabeth e i suoi doveri di russo in guerra (il grande Frank Langella).
In The Americans, quindi, possiamo trovare tutto ciò che una serie appassionante e intrigante dovrebbe avere: l’azione, la tensione, la riflessione, l’emozione e, aspetto da non tralasciare, la qualità formale.
Miglior episodio – 6×10 Inizio
Che l’ultimo episodio di una serie tv si intitoli Inizio (Start in originale) già la dice lunga sul significato più profondo e importante dell’opera. I Jennings, forse, potranno iniziare a capire chi sono realmente, dopo aver vissuto una vita al soldo di qualcun altro.
I due, ormai decisi ad abbandonare l’America, devono dire addio a molte cose e persone importanti, a partire da Henry, il figlio inconsapevole partito per il college, passando per Paige, la neo-spia che decide di non seguire le orme dei genitori, passando per il migliore amico che li ha scoperti (la scena del confronto con Stan, interpretato egregiamente da Noah Emmerich è letteralmente da brividi) e per il tanto confortevole e invidiabile american way of life, soprattutto se messo a confronto con la rigidezza e le limitazioni della madre Russia.
Con l’ultimo travestimento della loro vita (i costumi, i trucchi e le parrucche indossati ad ogni missione dai due esprimono alla perfezione il senso di spaesamento e di mancanza di una reale identità da parte dei protagonisti), Elizabeth e Philip, intraprendono un viaggio di ritorno alle origini per scoprire, finalmente, se stessi.
ALESSANDRA CAVISI