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Location perfetta, clima perfetto, per il perfettamente imperfetto live dei Primal Scream a Roma

primalscream1L’Ex Dogana è una location molto postindustriale, molto Inghilterra del nord, molto rave anni novanta. Molto Primal Scream insomma.

In occasione del concerto, in questo 16 luglio romano, dopo giorni di caldo torrido, fa anche un bel freschetto che ci fa entrare ancora meglio in un mood da cool britannia. Poi gli ottimi opener, i fiorentini /handlogic, contribuiscono a dovere, con il loro elettropop suggestivo e contemporaneo.

L’atmosfera, insomma, è proprio quella giusta quando salgono sul palco Bobby Gillespie e compagni. Il frontman, a suo modo stiloso in camicia dorata e pantaloni seventy – meglio tacere sul cozzare di tale look con l’outfit da country man del chitarrista Andrew Innes (bella invece Simone Butler, e qui chiudiamo il capitolo “Diavolo veste Prada”) -, manterrà per tutto il tempo un aplomb che si potrebbe dire algido, se non fosse rotto dagli sporadici ma teneri sorrisi di compiacimento per la partecipazione del pubblico, non numerosissimo ma entusiasta, che fanno propendere invece per la definizione “cool” (grazie lingua inglese, per avere una parola che significa sia “freddo” che “figo”).

Il pubblico, dicevamo, non si risparmia, fra cori, balli e battimani comandati dall’asciutto leader nel corso primalscream2di un concerto che, pur non essendo lunghissimo – anzi: quattordici pezzi per un’ora e mezza scarsa – restituisce tutte le sfaccettature di una band che si è guadagnata lo status di “cult” soprattutto per l’indefinibilità e la mutevolezza della sua musica: la parte più consistente della scaletta viene proprio da quel multiforme capolavoro di psichedelia acida e retrofuturistica che è stato Screamadelica, dall’iniziale Movin’ On Up all’encore, con Higher Than The Sun e Come Together, e l’irrinunciabile, vorticosa Loaded. Non mancano nemmeno i momenti bluesy e stonesiani, come Country Girl, mentre si alternano con mirabile efficacia (quella che ogni tanto, va detto, latita nella voce di Gillespie) brani tutti da ballare come se invece che sotto un cavalcavia di Roma est nel 2017 fossimo in una fabbrica dismessa di Manchester nel 1991 fatti di ecstasy, britpop e acid house, e oscure, sporche riflessioni di inquietante attualità (Swastika Eyes).

Alla fine, con la stessa espansività con cui sono entrati in scena, i nostri salutano (più o meno) e se ne vanno. Sì, era sarcasmo, ma non era polemico, sia chiaro: questo è, e se qualcuno si aspettava tante parole, calore umano e un’ora in più, forse si era perso cercando l’Olimpico e gli U2.

LETIZIA BOGNANNI

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