Partire da alcune grandi protagoniste della musica mondiale per affrontare un tema caldo come quello della disparità di genere. Questo è quello che ha fatto la speaker, dj e autrice Laura Gramuglia nella sua più recente fatica editoriale, Rocket Girls – Storie di ragazze che hanno alzato la voce, divenuta anche un programma radiofonico su Radio Capital, con cui Laura collabora da anni. Di radio, di musica, di donne e dell’ignoranza delle discriminazioni abbiamo parlato con lei in questa intervista da leggere assolutamente fino alla fine.
Ciao Laura, per cominciare parliamo un po’ di te. Da quasi dieci anni conduci programmi radiofonici su emittenti di portata nazionale (prima Radio Deejay e poi Radio Capital). Com’è nata la tua passione per la radio?
Da bambina. Mi sono innamorata della radio molto presto. Sarà stata la bellezza del mezzo, ma uno dei miei primi ricordi mi vede in cima a una sedia nel disperato tentativo di raggiungere una manopola incastonata in un mobile. Erano gli anni 80, ricordo radio incassate nella mobilia del soggiorno, hi-fi in salotto e autoradio estraibili nascoste nel bagagliaio della macchina. Da adolescente ho iniziato a procacciarmi personalmente i miei ascolti, ma ancora la radio mi permetteva di ascoltare voci, dialoghi, racconti. Non ho mai pensato però di poter essere anch’io un giorno una di quelle voci. E poi un bel giorno, alla fine degli anni 90, è accaduto. Ho iniziato davvero per caso a trasmettere in una radio locale e lì è iniziata un’altra bellissima storia d’amore. Una palestra importantissima imparare a gestire diretta e regia. A scegliere la musica e a godere di una libertà pressoché totale sulla messa in onda. Su pc avevamo un programma in via di sperimentazione, quindi accadeva spesso di usare ancora vinili e nastroni, di notte soprattutto.
Molto presto poi alla passione per la radio si è aggiunta quella per i libri, naturalmente a tema musicale e legati alle trasmissioni che conduci. Nascono prima le idee per il libro e poi i programmi oppure al contrario hai prima l’idea per un programma e poi da quella dai vita ai tuoi libri?
Oggi in radio conduco solo programmi da me ideati e scritti. Si tratta di format che esulano da quello che occupa abitualmente una fascia giornaliera quotidiana. Di sera e soprattutto nei mesi estivi c’è più spazio per la sperimentazione. Amo raccontare storie verticali che nascono sempre dalla musica, dall’ascolto ossessivo di un artista o di un album. A volte a vedere prima la luce è il libro, altre la trasmissione. Si tratta comunque di linguaggi molto differenti. Rocket Girls è stato pubblicato da Fabbri Editori a inizio giugno e dopo pochi giorni ha debuttato il programma omonimo, ma nel frattempo avevo iniziato a riscrivere tutto da capo. In radio non volevo affrontare puntate monografiche, ma ragionare per macro temi, in questo modo sarei riuscita a coinvolgere più ascoltatori, anche i non appassionati a un nome o a un genere in particolare. Si può pensare che il mio lavoro richiami più quello di un podcaster rispetto a quello di un conduttore radiofonico tradizionale, ma non è così. In radio, non solo ho un clock da rispettare, devo anche tenere alta costantemente l’attenzione di chi mi ascolta affinché non cambi frequenza. Nel podcast l’attenzione di chi mi ascolta l’ho già portata a casa perché tra i tanti a disposizione ha scelto di ascoltare proprio me; ecco che allora posso tirare il fiato e aprire qualche parentesi in più all’interno della narrazione.
Entriamo quindi nel vivo di Rocket Girls. In questo libro racconti brevemente le storie di 50 artiste internazionali (da Patti Smith a Janis Joplin, da Courtney Love a Yoko Ono, da Cher a Nico, fino a Madonna, Amy Winehouse, Whitney Houston e tante altre) che hanno dovuto spesso fronteggiare un ambiente lavorativo prevalentemente maschile e spesso anche maschilista e misogino. A chi si rivolge questo libro?
Valeria Parrella ha scritto che Rocket Girls è adatto a ragazze di tutte le età, dai 12 ai 95 anni. Sposo appieno il consiglio e mi sento di estendere l’invito anche ai ragazzi. Mi emoziono sempre quando scopro che alcuni librai sistemano il libro nel reparto young adult. Trovo sia quella la collocazione più consona, anche se la maggior parte delle volte occorre invece dirigersi al reparto musica. Rocket Girls è per prima cosa una richiesta di attenzione, una lettura che incoraggia a guardare oltre le etichette e a considerare la musica scritta, suonata e prodotta dalle donne non un genere a sé, ma un mondo ricco e sfaccettato quanto quello dei maschi. Le storie che racconto mettono al centro della narrazione donne indipendenti, osservatrici acute e affamate di novità. Donne tenaci, consapevoli del proprio potenziale e per questo incapaci di scendere a compromessi. Eccola lì l’attitudine rock, una caparbietà che ha portato alcune di loro a rinunciare ai propri sogni pur di non doverli barattare con i vincoli che manager, produttori e discografici imponevano alle artiste. Sono diverse le artiste che hanno combattuto il patriarcato della musica e si sono costruite un percorso là dove non esisteva nessuna strada tracciata per terra. Grazie a loro oggi le più giovani hanno diversi modelli di riferimento cui ispirarsi, vite che di straordinario hanno l’abnegazione per lo studio, la capacità di perseguire un obiettivo, sogni fatti per essere contenuti in un bagaglio a mano, pratici, comodi, da portare sempre con sé.
Data l’estrema diversità di generi, stili ed epoche, come è avvenuta la selezione delle artiste di cui hai parlato? E c’è stata qualche artista che hai dovuto lasciare a malincuore fuori dal libro?
All’inizio ho valutato la possibilità di raccontare più storie possibili, nomi sconosciuti probabilmente anche agli appassionati, il materiale era talmente tanto che ho pensato di servirmi di un fil rouge, ogni capitolo avrebbe raccolto artiste accomunate da un percorso simile, un’attitudine, un destino condiviso. Alla fine ho scelto di mantenere questa narrazione per il programma radiofonico; al lettore ho preferito garantire un’esperienza più fruibile. Ho pensato di sintetizzare il racconto attraverso le battaglie che ogni singola protagonista ha combattuto: Nina Simone e Joan Baez in prima linea per i diritti civili, le campagne di Beth Ditto contro la dittatura del corpo perfetto, Madonna e la discriminazione legata all’età delle donne, Kathlenn Hanna e ancora prima Slits e Joan Jett impegnate a garantire modelli alle ragazze che desideravano farsi largo in una scena a maggioranza maschile… In questo modo mi auguro di essere arrivata anche a chi non ha mai ascoltato la musica di queste ragazze. Spero anzi sia stato colto il suggerimento d’ascolto, quel brano che compare all’inizio di ogni capitolo e da cui prende il via la narrazione. Pezzi mai casuali, ma di supporto al tema trattato, di solito piccole e grandi rivoluzioni che hanno contribuito a cambiare le regole. Non ero interessata a compilare un almanacco rock, in giro ce ne sono già tanti e poi basta aprire Wikipedia per scoprire per sommi capi la vita di ognuna. Quattro pagine non sarebbero mai bastate e il rischio di lasciare storie incompiute era troppo grande. Ecco perché ho scelto di fotografare momenti, attitudini, impegno politico, battaglie sociali. In ogni caso nessuna pretesa di esaustività, Rocket Girls fotografa 50 artiste, 50 rivoluzioni, ma là fuori ce ne sono molte di più, penso a Carrie Brownstein, Alynda Segarra, Amanda Palmer, Ani DiFranco e insieme a loro tantissime ragazze di ieri maltrattate dalla storia, le cui storie premono per essere raccontate: Karen Dalton, Judee Sill, Connie Converse, Ace of Cups, Polly Styrene, Mia Zapata…
Tra le artiste non ce n’è nessuna italiana. Come mai?
Quando Rocket Girls ha iniziato a prendere forma, ho preferito non occuparmi delle artiste italiane perché, per quanto giustificata come possibilità, visto che il libro è uscito in Italia, non mi sembrava corretto lasciare fuori esperienze di altri paesi non anglofoni come Francia, Germania, Sud America, soltanto per citare la terra di provenienza di artiste che cito nel testo e che poi trovano ampio spazio nel programma radiofonico. Su Radio Capital ho dedicato un’intera puntata alle artiste del nostro paese: Gianna Nannini, Loredana Bertè, Nada, Alice, Caterina Caselli… Cristina Donà e Carmen Consoli sono state le uniche italiane invitate al Meltdown di Londra. Poi, certo, se parliamo al presente ci accorgiamo che il nostro paese qualche problema con le musiciste ce l’ha. È un dato di fatto che le donne che fanno musica, quelle che arrivano al grande pubblico o anche soltanto quelle che riescono a completare un percorso di studi siano ancora in minoranza rispetto agli uomini. Eppure all’inizio non è così. Da qualche parte però un imbuto c’è. In Italia per esempio sono tantissime le donne che si occupano di uffici stampa, promozione eventi, anche management, lavori dedicati alla cura dell’artista. Quando però si tratta di salire nell’ordine e di arrivare a ruoli di dirigenza, ecco che di donne non se ne incontrano quasi più. Per una musicista, ancora più che per un’interprete, le cose possono essere più complicate perché ha un’idea precisa di quello che vuole fare mentre un’interprete è più malleabile e si può plasmare anche in base agli autori che scriveranno per lei. Fiorella Mannoia racconta poi di non essere mai stata discriminata nel corso della propria carriera, fatta eccezione per il cachet. Quello, dice, ancora oggi è sempre inferiore a quello di un artista maschio di pari livello. Stessa difficoltà anche per quanto riguarda la presenza femminile nei cartelloni estivi, un problema che alla fine riguarda da anni anche l’estero. Alcuni, vedi l’esperienza dell’ultimo Primavera Sound a Barcellona, sono corsi ai ripari, altri ci stanno provando. Per fortuna oggi esistono realtà che anni fa non c’erano come ad esempio Shesaid.so – da un anno anche in Italia – una rete globale formata da donne che lavorano nell’industria musicale a tutti i livelli e in tutti i campi dell’industria: dalle etichette, al PR, al management, agli uffici stampa, alla produzione di concerti fino ad arrivare alle stesse artiste e molto altro ancora. Il quartiere generale della rete si divide tra Londra e Los Angeles, ma le reti locali comprendono New York, Parigi, Berlino, Mumbai, Barcellona e altre importanti città in tutto il mondo, per un totale di tredici gruppi locali e più di duemilacinquecento membri.
Avendo avuto modo di ascoltare le esperienze dirette di tutte queste artiste che hai citato, e anche in base alla tua esperienza come speaker, quanto secondo te viene compresa (da uomini e donne) la gravità delle discriminazioni nei confronti delle donne nel mondo dell’arte e dello spettacolo e quali sono a tuo avviso le cause principali del loro persistere?
A ogni latitudine, in ogni epoca, le donne sono sempre andate alla ricerca di credibilità e legittimazione. Cose che gli uomini probabilmente non si sognano di indagare perché parte del loro bagaglio alla nascita. Lo spiega bene Kathleen Hanna – storica leader di Bikini Kill e del movimento Riot Grrrl – alla fine del documentario The Punk Singer: “C’è questa convinzione per cui quando un uomo dice la verità, quella è la verità. E quando, come donna, dico la verità, sento di dover negoziare il modo in cui verrò percepita. Come se ci fosse sempre un sospetto riguardo alla verità di una donna. L’idea che tu stia esagerando”. In una recente intervista, Carmen Consoli dichiarava una brutta disarticolazione del sistema: quando si trova a suonare per la prima volta con una band, è costretta a demandare al suo chitarrista ciò che tecnicamente non torna. Anche se è lei ad accorgersi che qualcosa non funziona, se lo facesse notare per prima non otterrebbe la stessa attenzione. E stiamo parlando di una cantautrice tra le più talentuose e riconosciute nel nostro paese. Avere spazio e possibilità è qualcosa che anni fa le donne nel mondo della musica, e non solo, potevano solo sognare. Per la maggior parte di loro matrimonio e maternità rappresentavano ostacoli insormontabili al seguito della propria carriera. Oggi fortunatamente non è più così, ma ci sono campi in cui la disparità salariale, soltanto per fare un esempio, è ancora la norma. Le sfide insomma non finiscono mai, lo sintetizza bene St. Vincent quando dice che se non sei al tavolo, sei sul menù. In alcuni settori poi, dove la presenza delle donne non è affatto scontata, le prove sono all’ordine del giorno. Pensare a una donna dietro a un mixer è ancora, nel 2019, piuttosto inusuale per molti giornalisti del settore, ma la storia insegna che ci sono signore che hanno combattuto per queste posizioni fin dagli anni 50: Cordell Jackson e Bonnie Guitar, per esempio, sono state due pioniere della produzione; Leslie Ann Jones, già road manager e poi tecnico del suono, negli anni 70 venne estromessa dalle registrazioni a causa di alcune mogli troppo gelose; Susan Rogers, tecnico del suono di Crosby, Stills & Nash, ma anche di Prince, sa che la maggior parte delle donne che sceglie questo mestiere deve affrontare una lunga strada in salita: “Se una donna fa un ottimo lavoro, aiuta se stessa e tutte le altre che vengono dopo di lei. Se non è eccezionale, renderà le cose difficili per la prossima che ci proverà. Gli uomini, di solito, tendono a essere giudicati individualmente”.
Tra le diverse storie di cui hai scritto in questo libro, ce n’è qualcuna alla quale ti senti personalmente più legata?
È difficile rispondere a questa domanda perché ognuna delle 50 artiste che racconto mi ha accompagnato o continua ad accompagnarmi. Patti Smith è certamente lo spirito guida del libro, sua la citazione che apre il libro e sua la citazione che lo chiude. È stata tra le prime a lamentarsi della mancanza di modelli femminili nel rock. Quando all’inizio degli anni 70 cercava disperatamente di salirci da protagonista sul palco, dopo aver incontrato, ascoltato e apprezzato tanti maschi, si rese conto che di donne in giro non ce n’erano poi molte. Secondo Vivien Goldman, giornalista inglese, scrittrice e più tardi anche affermata autrice di canzoni, quando cominciò a scrivere di rock per la stampa a metà degli anni 70, le musiciste erano così rare che, in quello che potrebbe essere stato il primo articolo di Woman in Rock, descrisse una chitarrista con i capelli lunghi come fosse stata un unicorno. È la stessa mancanza che lamenta Patti Smith all’inizio del suo periodo newyorkese. Le ragazze nel mondo del rock, e più tardi nel punk, scarseggiano al punto che gli uomini sembrano i soli depositari della scena. In realtà le cose non stanno così dalla parte opposta dell’oceano, ma all’epoca era difficile che ci fosse un contatto tra esperienze simili su sponde così distanti. Si può dire quindi che Patti Smith sia stata una vera pioniera, non solo ha anticipato di alcune stagioni il punk e la new wave, ma ha introdotto nel rock una qualità di scrittura pari a quella di Bob Dylan. Non che sia necessario cercare il corrispettivo maschile per ogni protagonista; in questo caso chiamare in causa il primo cantautore Premio Nobel per la Letteratura è significativo, soprattutto per chi pensa che una lettura tutta al femminile della musica non sia possibile. Alla cerimonia di consegna del Nobel c’era Patti Smith a intonare A Hard Rain’s A Gonna Fall, al posto dell’amico Dylan. Sono molto legata anche a Betty Davis, conosciuta ai più per essere stata la moglie di Miles Davis e la musa di Bitches Brew. Betty in realtà non solo introdusse il marito al rock, ma appena Miles cominciò a metterle i bastoni tra le ruote abbandonò subito l’idea di stargli accanto se questo significava tenere a freno la propria creatività. Tra il 1973 e il 1975 registra tre album intrisi di funk arrabbiato e voce poderosa. Il suo look è unico, eversivo, sul palco come sulle copertine dei dischi. Betty fa tutto da sola, sceglie i musicisti che la accompagnano nelle sessioni in studio, scrive e arrangia brani ed è in anticipo sui tempi. La sua era una visione creativa, personale del rock mischiato al funk, in una parola: fusion. Chi mai aveva sentito prima canzoni del genere? Di certo non i discografici che continuavano a dirle di cambiare atteggiamento, immagine, stile. Non le radio che si rifiutavano di programmare pezzi così espliciti cantati da una donna. Betty Davis non era disposta a scendere a compromessi, sapeva il fatto suo, sapeva di avere tra le mani qualcosa di nuovo, importante, sarebbe stato sciocco tornare indietro e conformarsi a ciò che il pubblico già conosceva. Ecco perché alla fine degli anni 70 si perdono le tracce del suo talento. Il mondo non è pronto per Betty? Pazienza, è stato bello lo stesso, grazie e tanti saluti. Per avere successo e continuare a fare il proprio lavoro, l’industria musicale chiede alla donna di stravolgere la propria natura, diventare un’altra. Betty non ci sta, preferisce lasciarlo quel mondo anziché diventare la persona che non è.
Durante il lavoro di ricerca delle informazioni sulla vita e la carriera di queste grandissime artiste internazionali ti è capitato di scoprire qualcosa di inaspettato che non sapevi?
Eccome! Più andavo avanti nelle mie ricerche e più mi capitavano tra le mani dati sorprendenti. Come tengo sempre a precisare, fino allo sfinimento, le donne nel mondo della musica non sono mai state poche, sono poche quelle di cui ci si ricorda. Una manciata di nomi, di solito, artiste che hanno scalato montagne e compiuto vere e proprie rivoluzioni. Accanto a loro però hanno combattuto eserciti di musiciste le cui storie premono per essere raccontate. Vite straordinarie fatte di sfide e grandi canzoni, di scelte spesso difficili e dischi di cui non si può più fare a meno una volta scoperti. Là fuori c’è una strada alternativa a quella più battuta, una strada lastricata di pietre rotolate via troppo in fretta. Si sa che il rock è a predominanza maschile e anche allargando il discorso musicale a pop e dintorni, non si può pensare neanche lontanamente a una rappresentanza femminile paritaria. Tuttavia, si può tentare di allargare la visione, si deve fare. Quando nell’America degli anni 40 e 50, al termine della seconda guerra mondiale, gli uomini tornarono a casa, la stessa cosa fecero le donne, abbandonando le fabbriche. Chi per necessità aveva avuto un posto senza precedenti nella forza lavoro era stata richiamata all’ordine da libri come Modern Woman: The Lost Sex del 1947. Il testo sosteneva che solo un ritorno ai valori tradizionali e ai ruoli di genere avrebbe ripristinato “l’equilibrio interiore delle donne”. Per nostra fortuna le pioniere del rock più che a ristabilire un equilibrio interiore erano interessate a stabilire un equilibrio di genere nella musica. Non fu affatto facile, la maggior parte delle ragazze che scopriva di avere una propensione per folk e country non aveva la possibilità di andare oltre un matrimonio e la maternità. Di molte si conoscono appena i nomi e si ricordano brani distanti anni luce dalle vendite registrate dai colleghi. Intorno alla metà degli anni 50, proprio grazie all’avvento di Elvis e del rock’n’roll, è sembrato che le cose potessero iniziare a prendere una piega diversa. Nel 1952 Alan Freed, un dj di Cleveland conosciuto per essere stato colui che ha inventato il termine rock’n’roll, presentò e promosse quello che è considerato il primo concerto rock della storia. La cantante r’n’b Varetta Dillard era nella line-up. Nel 1953, Ruth Brown in cima alla classifica r’n’b con (Mama) He Treats Your Daughter Mean, aprì la strada alla sua etichetta discografica Atlantic. Nello stesso anno, Big Mama Thornton ebbe un enorme successo con Hound Dog, catturando l’attenzione di un bambino del Mississippi di nome Elvis. Nel 1954, la segregazione scolastica fu dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, e l’anno seguente una donna chiamata Rosa Parks fu arrestata a Montgomery, in Alabama, per aver rifiutato di lasciare il suo posto sull’autobus a un uomo bianco. Le sue azioni scatenarono il boicottaggio del sistema di autobus guidato dal ministro battista Martin Luther King Jr. e dal consiglio politico femminile locale. Quello stesso anno a Memphis debuttò WHER, la prima emittente radiofonica composta quasi esclusivamente da donne come la speaker Vida Jane Butler. Sempre nel 1955, Wanda Jackson incontrò Elvis Presley, che la convinse a passare dalla musica country al rockabilly. Per la prima volta un genere, fino a quel momento considerato un affare per soli uomini, si apriva a una donna che riuscì nell’impresa di diffondere la propria musica non soltanto ai cultori. Quando poi si rese conto che in giro non erano molte le canzoni adatte a una ragazza, cominciò a comporre lei stessa i pezzi. Con la complicità di altre più oscure protagoniste di quella stagione, Wanda Jackson insegnò il rock’n’roll da un’altra prospettiva.
Insomma più che “dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna” la storia sembra mostrare che è la grande donna ad avere spesso per prima le intuizioni e che il grande uomo la segue a ruota. Ma restiamo per adesso sulle “grandi donne”. Nel libro oltre te (e le artiste trattate) infatti ce n’è un’altra, ovvero l’illustratrice Sara Paglia, che ha realizzato le splendide immagini. Com’è nata la collaborazione con lei?
Ho conosciuto l’arte di Sara Paglia su Instagram. Mi sono innamorata del suo stile, del trattamento originale che riserva a ogni soggetto. Sara inizia a lavorare partendo da una foto, a mano libera, non torna mai indietro. Questo rivela una grande sicurezza, ma anche la possibilità che la tavola prenda una piega inaspettata. Ed è lì riposta la bellezza, perché anche se credi di avere già visto quell’immagine, da infiniti dettagli ti accorgi che è diventata altro. Quando Fabbri mi ha chiesto se avevo in mente un illustratore o un’illustratrice disponibile ad accompagnarmi in quest’avventura avevo solo il nome di Sara in testa e per fortuna non è stato necessario mettersi a caccia di un altro. Sara ha accettato con grande entusiasmo nonostante i tempi stretti di consegna, ha lavorato di giorno e spesso anche di notte e ha continuato ad accontentare tutti i suoi numerosissimi committenti.
Parliamo invece un po’ delle presentazioni che hai fatto fino ad ora, girando un po’ per tutta Italia. Qual è stata la domanda più particolare che ti è stata rivolta durante questi incontri?
Spesso, al termine di presentazioni dove non mi limito a raccontare il libro, ma anche a spiegare le ragioni che lo hanno prodotto, è normale chiedersi da dove arrivi questa disparità di genere. Ci si domanda se la biologia c’entri qualcosa o se semplicemente il genio femminile sia scomparso tra le pieghe della storia. In molti per esempio conoscono la triste storia di Nannerl Mozart, talentuosa quanto il fratello, ma privata delle possibilità offerte a Wolfgang in quanto femmina. Ancora oggi purtroppo, nella musica classica, il percorso per una donna può essere ben più accidentato rispetto a quello di un collega. No, la biologia non c’entra nulla. Il problema è altrove, il problema è il tempo, questione sintetizzata magnificamente dalla giornalista e scrittrice premio Pulitzer Brigid Schulte nel suo libro Overwhelmed: il più grande nemico di una donna è la mancanza di tempo per se stessa. Perché se ciò che serve per creare sono lunghi periodi in compagnia della propria musa, è qualcosa che le donne non hanno mai avuto il lusso di permettersi. A differenza degli artisti maschi, che si sono spostati attraverso la vita come se il tempo libero per se stessi fosse un diritto di nascita, i giorni e le traiettorie di vita delle artiste erano spesso limitati dai doveri della casa e dalle cure famigliari. Patti Scialfa in un’intervista di qualche anno fa raccontava di quanto fosse difficile per lei scrivere la musica per il suo album solista mentre i suoi figli continuavano a interromperla e a chiedere il suo tempo in un modo che mai aveva visto loro pretendere dal padre, Bruce Springsteen.
Alle donne non è mancato il talento per lasciare il segno nel mondo delle idee e dell’arte, è mancato il tempo. Altra questione sollevata spesso durante le presentazioni è la sensazione che per le donne sia molto difficile fare squadra. È vero, oggi fortunatamente le cose stanno cambiando anche sotto questo punto di vista, ma quando nei luoghi decisionali – posizioni di solito occupate da uomini – si continua a dare spazio ad altri uomini in un rapporto di genere evidentemente impari, è come se si volesse alimentare la rivalità tra donne. Un esempio: dopo il fortunato esordio con i Blondie, negli anni 80 Debbie Harry tenta la carriera solista, ma nella seconda metà del decennio ecco affacciarsi prepotentemente in classifica Madonna. Nulla di male, se non fosse che la Sire Records, trovandosi entrambe sotto contratto, decide di puntare tutto su quest’ultima. Per la serie: due cantanti pop nella stessa etichetta? Ce n’è una di troppo. Quando mai si è fatto lo stesso ragionamento per artisti maschi appartenenti a un genere così vario come la musica pop?
Laura, ti ringraziamo davvero tanto per tutte le cose interessantissime che ci hai raccontato in questa intervista e soprattutto perché contribuisci attivamente, attraverso il tuo lavoro, a questa battaglia verso la parità dei diritti. Per salutarci ma anche per permettere ai nostri lettori di venirti a trovare durante le presentazioni, vuoi dirci dove possiamo trovare gli aggiornamenti con le prossime date?
Volentieri. Aggiorno regolarmente la mia pagina Facebook con tutte le date. Posso però già dirti che a inizio gennaio tornerò alla Radiotelevisione Svizzera ospite del programma Tutorial e poi farò una presentazione con live a Bologna. A fine febbraio sarò per la prima volta a Taranto per presentazione e dj set. L’8 marzo sarò a Morciano di Romagna. Altre date sono in via di definizione, non vedo l’ora di rimettermi in viaggio.
Questo il link dove potete seguirmi: https://www.facebook.com/lauragramuglia.dj
Grazie a te, è stato un grande piacere.
Qui il link del libro sul sito della casa editrice: https://fabbrieditori.rizzolilibri.it/libri/rocket-girls/
Qui il link alla playlist su Spotify con i brani presenti in Rocket Girls: https://open.spotify.com/playlist/7i444i9zmJ4yL0lPq7bu3V
ELIDE FERRARI