Visti, rivisti, da rivedere – Manchester by the sea

manchesterbythesealocandinaLee Garner lavora come portiere in quattro condomini a Boston dove fa il tuttofare, occupandosi di spalare la neve, di sistemare le tubature rotte, di buttare l’immondizia e di riparare qualsiasi guasto. È un uomo scontroso e solitario, irascibile e poco socievole. Costretto a tornare a Manchester a causa della morte del fratello, dovrà fare i conti con un passato doloroso e sepolto che vede coinvolti la sua ex moglie e suo nipote.

La felicità è reale solo quando condivisa”: lo scriveva Lev Tolstoj in Felicità Familiare, lo faceva suo Chirstoper McCandless in Into The Wild. Si potrebbe fare un ragionamento al contrario anche per il dolore, che diventa più sopportabile solo se, anch’esso, condiviso. È forse questo uno degli assunti fondamentali della terza opera di Kenneth Lonergan, Manchester by the sea: un film che si fonda sul dolore, sul senso di colpa, sull’incapacità di superare il passato e sull’impossiblità di adeguarsi al presente per andare verso il futuro. Ed è un assunto tutto racchiuso negli occhi tremendamente comunicativi di Casey Affleck, chiamato ad interpretare il protagonista e riuscendo a dargli una patina realistica raramente vista sul grande schermo, grazie anche al calibratissimo utilizzo di movenze e atteggiamenti. Il senso di perdita è un sentimento che conosciamo tutti molto bene e che in un certo qual modo al cinema è stato molte volte mostrato con scarsa veridicità, sfociando il più delle volte nel melodramma eccessivo o nell’esagerazione di toni e situazioni. La cosa più sorprendente di questo film, invece, risiede in una grandissima aderenza alla realtà che coinvolge fortissimamente lo spettatore, il quale riesce magicamente a “specchiarsi” nei dialoghi (straordinari, meritatissimo il premio Oscar alla sceneggiatura, così come quello al miglior attore per Affleck), nelle dinamiche relazionali, ma soprattutto negli imbarazzatissimi silenzi e negli sproloqui senza senso che spesso intercorrono tra i protagonisti (a tal proposito una delle sequenze più coinvolgenti e realistiche in assoluto è quella dell’incontro casuale tra Lee e la sua ex moglie, in cui manchesterbytheseaframe1nessuno dei due riesce davvero a dire nulla di sensato, ma in cui in pochi minuti vengono espressi anni di lontananza e di sofferenza, sequenza che in questo caso viene retta magistralmente da una Michelle Williams che ipnotizza e conquista come sempre). Inoltre, tralasciando un paio di momenti in cui il rischio ruffianeria di cui sopra viene sfiorato o totalmente cavalcato (basti pensare all’utilizzo del più noto adagio di Albinoni nella sequenza clou che mostra l’origine dell’insofferenza esistenziale patita dal protagonista), l’altro motivo di grande apprezzamento di questo film è la presenza di una godibilissima, per niente stonata e, lo ripetiamo, realistica ironia di fondo che contrassegna il rapporto tra Lee e Patrick, il nipote sedicenne, l’altro lato della medaglia di quest’opera. Perché Lee rappresenta la morte, l’ancoraggio al passato e l’impossibilità di continuare ad esistere (manca solo il suo nome nella tomba di famiglia alla fine del film), mentre Patrick rappresenta la vita, la voglia di ricominciare, la necessità di tuffarsi nel mondo. Anche se le loro reazioni alla morte del padre e fratello sono sempre misurate e a tratti apparentemente fuori luogo, c’è una metafora che rappresenta i due modi di reagire alla perdita: il corpo del defunto, a causa di alcune difficoltà climatiche e logistiche, dovrà stare per un periodo di tempo in un congelatore. Lee è d’accordo, perché anche la sua esistenza è congelata, mentre per Patrick questa cosa diventa addirittura causa di attacchi di panico, segno che non ha intenzione di rimanere congelato anche lui.

Con grande equilibrio e misurata attenzione ai paesaggi plumbei e tristi, come i personaggi che li popolano (escludendo le derive, seppur poche, di cui sopra), Manchester by the sea è un film che commuove senza strappare la lacrima facile, ma facendo paradossalmente sorridere di fronte all’ineluttabilità della morte e alla necessità di andare avanti, in qualunque modo.

ALESSANDRA CAVISI

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